Chiara Cemmi, psicologa psicoterapeuta esperta in stalking
Beatrice Di Zazzo, psicologa esperta in stalking

Le definizioni dello stalking

Lo stalking, ossia il comportamento di atti persecutori e assillanti indesiderati, ha acquisito rilevanza fenomenologica dagli anni ‘90 in poi, a causa dell’aumento di questi comportamenti contro personaggi famosi (Lowney, Best, 1995). Con il passare degli anni si è provveduto invece a far rientrare nel fenomeno anche e soprattutto i comportamenti assillanti in generale e si è proceduto a configurare una vasta gamma di comportamenti e intenzioni come reato, soprattutto negli Stati anglosassoni (Mullen, Pathè e Purcell, 2009). Una delle prime definizioni di stalking più specifica è stata formulata da Pathé e Mullen (1997), che lo hanno inteso come “una costellazione di comportamenti tramite i quali un individuo affligge un altro con intrusioni e comunicazioni ripetute e indesiderate a un punto tale da provocargli timore per la propria incolumità”. In sostanza, lo stalking può essere realizzato con comportamenti differenti, tra i quali i più comuni e riconoscibili sono: seguire e spiare una persona, comunicare in maniera ripetuta e invasiva, aggredire verbalmente o fisicamente. Con l’accertamento della gravità dei danni e delle conseguenze sulle vittime, la crescente attenzione legislativa ha promosso un approfondimento psicologico del fenomeno, soprattutto per quanto riguarda l’impatto della violenza persecutoria sulle vittime e su persone terze (Spitzberg, Cupach, 2007) e per le conseguenze devastanti sul benessere fisico, psicologico e sociale di chi è oggetto di determinate condotte persecutorie (Pathè, Mullen, 1997). Nell’ordinamento giudiziario italiano, il reato specifico di stalking è stato introdotto nel 2009 con l’Art.612 bis[1]: “Salvo   che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a  quattro  anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura  ovvero  da  ingenerare  un  fondato  timore  per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero  da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita…”. Da questa formulazione si evince come il reato di stalking abbia dei connotati psicologici sia per quanto riguarda l’impatto sulla vittima che per ciò che concerne la configurazione stessa del reato. L’attenzione per gli aspetti psicologici dello stalker è stata inoltre rimarcata con l’introduzione nel sistema giudiziario italiano della Legge del 19 Luglio del 2019 (il cosiddetto Codice Rosso)[2], che prevede, oltre a indicazioni riguardanti le procedure che Forze dell’Ordine e Pubblico Ministero devono seguire per la gestione della notizia di reato, la sospensione della pena ora subordinata alla partecipazione di percorsi trattamentali. Per le Forze dell’Ordine, inoltre, è stato introdotto l’obbligo di attivare corsi di formazione specifici per poter gestire e valutare in modo specifico e accurato i differenti casi di stalking che possono essere oggetto di una segnalazione e/o di una denuncia. È quindi di fondamentale importanza poter scegliere una cornice di riferimento in grado di comprendere quanti più fattori di rischio e avere delle attendibili linee guida per il trattamento e il reinserimento dello stalker.

 Le classificazioni dello stalking

Al fine di inquadrare in maniera sempre più specifica lo stalking, successivamente sono state formulate molteplici classificazioni psicologiche del fenomeno, di cui si riportano di seguito solo quelle maggiormente utilizzate e validate. Secondo la classificazione di Zona et al. (1993), lo stalking viene differenziato in base alla relazione esistente tra stalker e vittima, individuando i seguenti gruppi: gli erotomani, gli amanti ossessivi e gli ossessivi semplici. Nella classificazione di Wright et al. (1996), gli stalker vengono differenziati tra “domestici” (coloro che agiscono contro ex partner) e “non domestici”; questi due gruppi sono ulteriormente suddivisi tra organizzati e deliranti, prendendo in considerazione la presenza o meno di psicosi. Altra classificazione utile da citare, poiché alla base del modello S.I.L.Vi.A (Stalking Inventory List for Victims and Authors) che citeremo di seguito, è quella proposta da Boon e Sheridan nel 2001 e si basa sia sulla relazione tra stalker e vittima, sia sulle caratteristiche dello stalker, individuando le seguenti categorie: molestie da parte dell’ex partner, atti persecutori dovuti all’infatuazione, stalking delirante e stalking sadico. La classificazione di Mohandie et al. (2006) è conosciuta come RECON Typology, poiché prende in considerazione la relazione (RE) tra stalker e vittima e il contesto (CON) nel quale avviene lo stalking. Tramite questa classificazione è possibile individuare le seguenti tipologie: stalker di TIPO I (con relazione pregressa), suddivisi in Intimi e Conoscenti; stalker di TIPO II (senza relazione pregressa, se non di tipo incidentale), suddivisi in Figure Pubbliche e Estranei. La classificazione che è alla base dello Stalking Risk Profile è stata invece formulata da Mullen et al. (1999 e 2009), prendendo in considerazione un campione di 145 stalker nel quale sono state riscontrate diverse tipologie di stalker con specifici fattori di rischio; gli stalker vengono quindi classificati in Rifiutati, Rancorosi, Cercatori di Intimità, Corteggiatori Incompetenti e Sadici. Per una comprensione affidabile e valida dei casi di stalking è necessario poter inquadrare la cornice di riferimento più idonea e poter valutare i fattori di rischio in modo da fornire una stima dei vari rischi rilevabili; questo dipende in gran parte anche dalla fase in cui il comportamento persecutorio è arrivato e dal fine che il valutatore deve perseguire (analisi preliminare, analisi post denuncia, indicazioni trattamentali, follow up, etc.).Come analizzato da McEwan e Davis (2020) in un campione australiano, gli elementi più significativi per inquadrare un caso di stalking sono la natura della relazione pregressa tra autore e vittima, la motivazione iniziale dello stalker, la presenza e la natura di un disturbo mentale nello stalker. In questa analisi è stato riscontrato come strumenti basati sulla relazione pregressa tra autore e vittima possono essere utili nella fase iniziale per una valutazione iniziale che dia indicazioni sulla gestione preliminare dello stalking; gli strumenti basati sulla motivazione dello stalker, che comprendono anche gli altri fattori di rischio, risultano invece più accurati per una gestione complessiva del fenomeno poiché forniscono maggiori informazioni e linee guida per approntare un piano di gestione che comprenda il maggior numero di fattori possibili coinvolti nel caso specifico. Differenti classificazioni possono fornire molteplici linee guida per valutare correttamente il rischio di agiti violenti e di recidiva dello stalker, ma è fondamentale affidarsi a strumenti validati, affidabili e accurati per la tipologia di rischio che si intende prevedere.

Strumenti esistenti

Attualmente, nel panorama internazionale, esistono quattro strumenti pensati appositamente per lo stalking. I primi due strumenti, entrambi costituiti da check-list, risultano principalmente utili a supporto per le Forze dell’Ordine e per gli operatori, non provenienti da ambiti di formazione psicologico-psichiatrica. Hanno lo scopo di fornire un quadro generale della situazione specifica, indirizzando le successive attività per un intervento quanto più mirato possibile. Il primo strumento, italiano, nato dalla collaborazione tra Direzione Centrale Anticrimine, Servizio Centrale Operativo e il Dipartimento di Psicologia Centro studi Cesvis della II Università degli studi di Napoli, è la check list denominata S.I.L.Vi.A. (Stalking Inventory List per Vittime e Autori) e fonda la propria struttura sulla base della classificazione degli stalker formulata da Boon e Sheridan nel 2001. Il secondo strumento è la SASH (Screening Assessment for Stalking and Harassment, MacEwan et al.,2017), fondato sulla classificazione proposta da Mullen et al. (1999), check list validata da Hehemann et al. (2017) su un campione di 115 casi di stalking in Olanda. Di diversa natura invece risultano essere i seguenti strumenti, che permettono un’analisi approfondita. Si tratta, in entrambi i casi, di linee guida, pensate per aiutare l’utilizzatore a formulare giudizi clinici strutturati. Si tratta della Guidelines for Stalking Assessment and Management (Kropp et al., 2008) e basata sulla classificazione RECON di Mohandie et al. (2006), la cui validità e affidabilità sono state oggetti di sei studi differenti (Belfrage, Strand, 2009; Storey et al., 2009; Kropp et al., 2011; Storey, Hart, 2011; Foellmi et al., 2106; Shea et al., 2018), dai esiti non concordati, soprattutto in merito all’affidabilità. Il secondo strumento presente nel panorama internazionale è lo Stalking Risk Profile (Mullen et al., 2009), basato sulla classificazione di Mullen et al. (1999). È stato a sua volta oggetto di una ricerca (McEwan et al., 2016), che ha riscontrato come lo stesso avesse una buona consistenza interna, oltre a una buona affidabilità e un indice di validità sufficientemente significativo, soprattutto nella discriminazione tra recidivi e non, in caso di alto rischio di recidiva.

SRP e SAM: due strumenti a confronto

Storey e colleghi (2017) hanno riscontrato che le principali differenze tra SRP e SAM risultano essere sostanzialmente tre: a.) i due strumenti considerano in modo differente la motivazione che spinge l’autore di stalking ad agire: la SAM deduce questo elemento al termine del processo valutativo, lo SRP invece fonda il processo valutativo proprio sulla supposta motivazione dell’agente; b.) la SAM valuta inizialmente, in complessivo, ogni possibile fattore di rischio e solo successivamente stabilisce, ipotizzando futuri scenari, i livelli di rischio di agito violento e di recidiva; lo SRP struttura il processo valutativo già sulla base di quattro domini di rischio specifici (agito violento, persistenza, reiterazione e danno-psicosociale) e per ognuno di questi prende in considerazione i fattori di rischio che possono influenzarli; c.) la SAM prevede una sezione dedicata ai fattori di vulnerabilità della vittima; lo SRP ne tiene conto in alcuni aspetti ma è pensato per essere utilizzato sul perpetratore, inserisce invece la sezione di valutazione del danno psico-sociale a cui questi può andare incontro.  La scelta di tradurre in italiano lo SRP è nata dalla constatazione che, in assenza di strumenti specifici, in situazioni di stalking si ha la tendenza a utilizzare strumenti impropri, che rischiano non solo di non inquadrare correttamente il fenomeno, ma possono sottostimare un episodio, percepirlo come scarsamente gestibile o anche non inquadrarlo come agito persecutorio, con relative conseguenze sulle vittime, sulla percezione del problema in generale, ma anche sulla possibilità, per il perpetratore, di poter accedere a servizi competenti a far fronte alle proprie problematiche (Thompson et al., 2020). Diverse sono le limitazioni dello Stalking Risk Profile: è infatti pensato all’uso con perpetratori adulti e il suo utilizzo è limitato qualora non si abbia la possibilità di interagire con gli stessi; inoltre, è ancora oggi scarna la ricerca in merito al trattamento di autori di stalking (citiamo lo studio di Rosenfeld et al., del 2019, come uno degli ultimi effettuati in merito). Tuttavia il suo punto di forza è proprio la possibilità, tramite la valutazione del rischio di danno-psicosociale, di ipotizzare fin dal primo approccio quali interventi attuare per promuovere la riduzione del comportamento persecutorio o aumentare la motivazione al trattamento, qualora necessario. Oltre a ciò, la possibilità di ottenere un quadro completo dell’autore di stalking e di focalizzare in modo chiaro le sue aree di fragilità, rendono agevole e strutturata la possibilità di attuare piani di gestione e trattamento quanto più mirati, e pertanto efficaci, possibili. Alla luce di quanto indicato dal Codice Rosso, lo SRP potrebbe divenire lo strumento principale tramite il quale realizzare le direttive che il Legislatore ha promosso per gestire in maniera scientifica e accurata un fenomeno che, sempre più spesso, è presente e si manifesta con esiti a volte infausti. Inoltre, la possibilità di avere delle precise indicazioni trattamentali diminuirebbe non solo la recidiva, ma anche i costi sociali connessi con il fenomeno.

[1]         Articolo aggiunto dall’art. 7, D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 23 aprile 2009, n. 38.

[2]      G.U. n.173 del 25 luglio 2019.

References

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https://www.poliziadistato.it/statics/09/silvia_def.pdf

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