Sara Pietrafuso – Studio Associato RiPsi
Sull’accesso all’età adulta di persone con disabilità ed handicap è stato scritto molto, da diverse angolazioni.
Questo articolo intende approfondire un particolare immaginario che costella le rappresentazioni dei familiari intorno a queste tematiche.
Si tratta della rappresentazione della persona con disabilità intellettiva come un eterno bambino, privo di possibilità evolutive, perennemente sospeso in tempo indefinito.
Questo ha il suo razionale nella complessità intrinseca della riflessione sulla dimensione adulta della persona con disabilità cognitiva, aspetto denso e ancora oggi interessato da ampie zone d’ombra.
Per riflettere sul concetto di “eterno bambino” non possiamo prescindere tuttavia dalla considerazione del percorso di crescita personale della persona con deficit intellettivo, a partire proprio dall’infanzia.
Perché certamente l’eterno bambino è stato un bambino.
L’incontro con un figlio, come sappiamo, è un evento assolutamente singolare, irripetibile, preparato da un tempo che può essere anche molto lungo in cui i genitori, ciascuno a modo suo, immaginano e fantasticano il bambino che verrà.
È naturale riporre nel nuovo nato speranze e desideri, fantasticare i suoi successi e le sue gratificazioni, allontanando inevitabilmente il confronto con la dimensione del dolore, della fatica e dell’insuccesso.
La nascita di un bambino con handicap rappresenta una frattura di questo processo; i genitori, chi prima e chi poi, vengono presto fagocitati dalle angoscianti corse da specialisti e ospedali, dalle preoccupazioni e dalle angosce più profonde che purtroppo, a volte, fanno perdere di vista la dimensione del desiderio che invece è una spinta sana ad andare avanti con speranza.
Questo predominio di angosce e preoccupazioni può prendere diverse forme, andando a condizionare gli atteggiamenti, le abitudini di vita e, in generale, lo sguardo con il quale si guarda al mondo.
Una modalità tipica di fronteggiare questi vissuti è quella di investire al massimo nella protezione e nella cura del nuovo nato, anche a scapito di se stessi o di altre relazioni importanti.
Questo avviene sulla base di un meccanismo psicologico inconscio, cioè non consapevole, molto delicato: l’identificazione al bambino nei suoi aspetti di fragilità.
Il genitore, cioè, tende inconsciamente ad identificarsi con gli aspetti più indifesi e vulnerabili del figlio, enucleati nella sua disabilità.
Si tratta di una modalità di risposta dettata da complesse motivazioni emotivo-affettive, parliamo di attaccamento, angoscia, preoccupazione, bisogno di intervenire e di riparare a quella ferita originaria dovuta all’incontro con la patologia del figlio.
La dedizione assoluta che si osserva in tante famiglie segnate dall’handicap e dalla disabilità conduce molto spesso alla creazione di dinamiche relazionali improntate dalla dipendenza emotivo-affettiva.
Un legame improntato dalla dipendenza psichica, oltre che fisica, determina il fatto che il bambino, abituato a riferirsi a un altro che si prende cura di lui in modo totalizzante spesso anticipando anche la manifestazione dei suoi bisogni, non riuscirà a sperimentare la comunicazione delle sue necessità e desideri e la possibilità di perseguire da solo al loro soddisfacimento, fosse anche andando incontro a frustrazione.
Quel bambino imparerà a dover sempre riferirsi al genitore per l’assolvimento dei suoi bisogni e per l’espressione di ciò che gli si agita dentro, non avendo avuto la possibilità di fare da solo.
Il genitore si sentirà l’unico interprete dei desideri e della lingua spesso incomprensibile del figlio, traendo un rinforzo notevole nel continuare a svolgere questa funzione e, spesso, trovandosi in difficoltà nel trasmettere quella lingua ad altre figure che potrebbero beneficiare di un training (insegnanti, educatori, ecc…).
Il bambino e il genitore vanno così a costituire un tutto unico e indissolubile, condizione che rende complicato il pensare all’età adulta, aspetto che veicola inevitabilmente l’idea del complesso processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali.
D’altro canto è indubbio che compito genitoriale, in caso di presenza di disabilità, sia irto di fatiche e, nondimeno, il tema della dipendenza relazionale risulta difficilmente evitabile se pensiamo agli importanti bisogni assistenziali delle persone con disabilità cognitiva, anche se non interessati da deficit motori.
Ad ogni modo, il fatto che una persona sia anche gravemente disabile e non si possa pensare per lei ad un percorso “tradizionale” verso l’età adulta (con le sue tappe più identificabili quali la progressiva autonomizzazione, la patente, un lavoro, una relazione stabile, dei figli, l’indipendenza economica e psico-affettiva), non significa che per lei sia sbarrato tout-court l’accesso all’età adulta.
Se la difficoltà dei genitori nel pensare al processo adulto risulta pienamente comprensibile, va detto al contempo che la funzione genitoriale deve trovare tra le sue risorse la pensabilità e successivamente l’individuazione di ambiti anche minimi di autonomia dei figli, pur se “fragili”, per sostenerli in un reale percorso evolutivo.
Ma cosa significa essere adulti?
Il concetto di età adulta è stato oggetto, negli ultimi anni, a studi e ricerche in ambito psico-educativo e sociologico.
Quello che è importante chiarire in questa sede è che le persone con handicap, tipicamente, rivendicano con forza la loro inclusione nell’età adulta, incontrando spesso la fatica dei familiari nel sostenere questo processo, come già declinato.
Questa dimensione particolare si innesta sul fatto che nella nostra società, in generale, i processi legati al diventare adulti si sono notevolmente dilatati a livello temporale e complessificati.
Sappiamo che diversi fattori (la crisi economica, la maggiore offerta di formazione, l’assenza di istituti sociali che favoriscano lo svincolo dalla famiglia di origine) hanno fatto in modo che attualmente i ragazzi stazionino molto tempo in un’età indefinita che spesso viene considerata un’eterna adolescenza.
Dopo la scuola superiore ormai è molto difficile inserirsi nel mondo del lavoro e quindi il tempo successivo, dedicato alla formazione universitaria o ad altre esperienze formativo-occupazionali, rappresenta di fatto un ponte tra due età della vita in cui i giovani risiedono ancora presso la famiglia mantenendo modalità relazionali e abitudini proprie dell’età adolescenziale maturando al contempo esperienze tipiche dell’età adulta (una relazione affettiva stabile, la possibilità di fare le vacanze fuori casa insieme al compagno/a, l’accesso ad una sessualità di coppia stabile e riconosciuta).
Per le persone disabili e le loro famiglie è molto diverso.
In genere la conclusione della scuola secondaria superiore rappresenta un momento cruciale in cui si incrociano due processi molto delicati.
Da un lato, la conclusione del ciclo scolastico porta con sé la fine della collocazione della persona con handicap in un contesto di integrazione sociale “estesa” quale è il mondo della scuola.
È molto rassicurante per un genitore vedere il proprio figlio a scuola insieme agli altri, anche se ha necessità dell’insegnante di sostegno e di assistenza personale.
Quando la scuola finisce e i figli raggiungono la maggiore età questa certezza viene a mancare e, per giunta, spesso questa tappa coincide con la dimissione dalla UONPIA, che ha assicurato fino a quel momento un servizio unico di riferimento per il ragazzo e la famiglia.
Una sensazione di vuoto e di disorientamento segna questo passaggio.
Un passaggio nel quale i familiari di persone con handicap si trovano spesso a dover fare i conti nuovamente, ma forse in un modo più netto, con il fatto che il futuro del proprio figlio/a non potrà prescindere dalla sua disabilità: che si parli di un lavoro protetto o di un centro diurno socio-educativo.
È doloroso concepire che i percorsi di riabilitazione siano conclusi e che i progetti che si profilano non mettano più l’accento su questa parte, vissuta come un investimento sul futuro e come possibilità di miglioramento.
Indubbiamente l’investimento enorme nella riabilitazione e nelle terapie concerne il bisogno del genitore di continuare a credere in un futuro sostenibile, riparando la ferita subita, ma questo spesso cela una sottesa negazione della disabilità del figlio, come un dato insopportabile.
Purtroppo però anche questa spinta, certo comprensibile e molto frequente, contribuisce ad inibire il processo di svincolo della persona con handicap, che desidera pensare che vi sia possibilità di crescita e futuro, nonostante e al di là del suo handicap.
Per la persona con handicap, infatti, deve arrivare il momento in cui il suo handicap diventa parte della sua realtà e non più il male assoluto da combattere: solo in questo modo si può fare posto ad altre relazioni, interessi, desideri, scelte, possibilità.
Mettere in rilievo questi aspetti non significa criticare gli atteggiamenti genitoriali: nessuno può giudicare le infinite risposte che ciascuno di noi trova di fronte al dolore.
Piuttosto, analizzare questi atteggiamenti, facendo intravedere le resistenze psicologiche e le fatiche sottostanti, rende ancor più comprensibili queste risposte.
Dirigendoci verso la conclusione, come pensare all’età adulta delle persone con disabilità?
È conciliabile questo concetto con l’idea di un bisogno di assistenza e guida costante?
Se, infatti, ci fermiamo ad una idea di adultità centrata solo sui concetti di indipendenza, piena autonomia, autodeterminazione, autosufficienza, difficilmente riusciremo a pensare all’accesso di una persona con handicap cognitivo all’età adulta, un essere adulti che coniughi realismo e sostenibilità.
L’assunto di base è che non è necessario essere autonomi in tutto per considerarsi adulti (chi di noi è completamente autosufficiente e autodeterminato?).
Pensando nello specifico alla persona con disabilità cognitiva possiamo considerare “adulto” chi può scegliere le proprie dipendenze, individuando in quali campi può giocarsi in autonomia (fosse anche la scelta degli alimenti o degli abiti, o dell’attività da frequentare) e in quali avrà necessità di assistenza e/o di guida e supervisione.
Naturalmente la famiglia deve avere un ruolo in tutto questo, consentendo questo processo e sostenendo scelte e decisioni strada facendo. Ecco che si ridefinisce il concetto stesso di autonomia: dal “fare tutto da solo” (idea obsoleta di autonomia) all’integrazione delle competenze e abilità individuali con quelle dei caregiver, servizi di riferimento, agenzie sociali.
Solo in questo modo sarà possibile costruire l’accesso all’età adulta della persona con disabilità cognitiva, riuscendo a tenere insieme un paradosso: i bisogni permanenti e la voglia di essere grandi.
Si può fare, come ci ricorda un bel film di successo molto vicino a queste tematiche, con la consapevolezza che il ruolo genitoriale deve sapersi modulare, come d’altro canto avviene sempre, alle istanze dei figli: i genitori saranno ancora attivi costruttori, dovranno sempre vigilare e monitorare, ma sapendo che il loro contributo, da una certa fase in poi, dovrà includere un partner alla pari, quel figlio fragile che dovrà partecipare alla costruzione di una sua sfera autonomia, che sarà assolutamente soggettiva e, magari, passibile di ridefinizioni nel corso del tempo.
Si tratta, in fondo, di un accompagnamento partecipato (anche in termini di lavoro dei servizi) alla costruzione del processo adulto e, soprattutto, del sostrato di autonomia personale, sociale, relazionale che lo abita.
References
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